Le parole che non ti ho detto in PDF
"Caro San Paolo Borsellino,
sono passati ventiquattro anni dalla sua scomparsa. Mi rivolgo a lei con l’appellativo di “santo” perché penso che ha combattuto contro la mafia, per un paese libero pur sapendo che avrebbe rischiato la vita ed essere ucciso come un martire, un “santo” per l’appunto. Noi la ricordiamo oggi come un uomo, che si è sacrificato per una Sicilia più sicura, senza omertà, in cui poter avere la sicurezza di passeggiare sul lungomare del proprio paese, di guidare la propria auto, magari in quell’autostrada A29 per Capaci o di accompagnare la propria madre dal cardiologo, di assistere alla festa della paese tranquillamente. Ha avuto il coraggio anche, nell’ultimo periodo della sua vita, di allontanarsi dai suoi figli Manfredi, Lucia e Fiammetta affinché, senza piccoli traumi, si abituassero già alla sua assenza e si trovassero in qualche modo “preparati” qualora fosse venuto a mancare o avesse fatto la stessa fine del collega Falcone. “La mafia vince solo se c’è il silenzio e l’indifferenza da parte delle persone” così dice il procuratore antimafia di Milano Alberto Nobili. Ecco, lei è riuscito a rompere questo silenzio e vincere ciò che per molti è invece impossibile. La mafia non è affatto invincibile e un giorno “sarà sconfitta da un esercito di insegnati e di studenti”. Lei è un grande uomo, tanto che l’allora segretario del MSI Gianfranco Fini, consigliò ai suoi parlamentari di eleggerla come Presidente della Repubblica. Ma lei volle esimersi, perché il suo obiettivo non era la politica. Lei non sa per che, in quel maledetto pomeriggio del 19 luglio del 1992, in quella maledetta via, suo figlio Manfredi sfrecciando con una moto guidata dal suo amico d’infanzia, si recò in via d’Amelio. Non sa che suo figlia Lucia ricompose il suo corpo fatto a pezzi da chili di tritolo e la ricompose all’interno della camera mortuaria dell’obitorio di Palermo. Lei che ebbe la forza di sostenere il suo esame ugualmente il giorno seguente, lasciando a bocca aperta la commissione: ecco da chi ha preso il coraggio e la determinazione… Lucia poi raccontò alla sua famiglia, gli ultimi attimi della sua vita, che lei è morto sorridendo, sotto i suoi baffi affumicati dalla fuliggine dell’esplosione e ha intravisto il suo solito ghigno, quello di sempre, come se lo aspettasse. Un po’ come Don Pino Puglisi che prima di essere freddato dalla mafia disse a Gaspare Spatuzza, il suo assassino: “me lo aspettavo” e lo perdonò. Se mafiosi si ritengono degli uomini allora, io non sono un uomo. Grazie di tutto". Niccolò 4 BL
PAOLO BORSELLINO, IL CORAGGIO DI ESSERE SEMPRE IN PRIMA LINEA
Destinatario: Il Corriere della Sera.
Giornalista: Luca 2FL
Intervistato: Paolo Borsellino, 52 anni, magistrato italiano.
Luogo e data: Ficarazzi (PA), 4 luglio 1992.
L’appuntamento è per le 21:30 in un piccolo bar che si affaccia sulla spiaggia di Crucicchia. Ad un certo punto, dal suono delle sirene e dai lampeggianti che intravedo in lontananza, capisco che Paolo Borsellino, una delle più grandi personalità nella lotta contro la mafia, sta per arrivare, accompagnato, come sempre, dalla sua scorta. La porta posteriore di una delle due macchine si apre, il magistrato scende e mi stringe la mano, accennando un sorriso. Fa caldo in questa domenica di luglio; Borsellino ha scelto un abbigliamento semplice: polo verde bottiglia, jeans e scarpe sportive. Lo guardo per bene e mi accorgo che il suo viso è tirato, come di una persona che abbia tante ore di sonno da recuperare, il suo sguardo è vivace ma insolitamente malinconico. Ci appartiamo ad un tavolino d’angolo all’interno del locale semideserto, mentre, poco distanti da noi, due agenti rimangono sempre in allerta. Iniziamo la conversazione.
L: Dottor Borsellino, sono davvero onorato e la ringrazio di cuore per aver concesso questa intervista a me che sono solo un giovane praticante.
Borsellino: E’ sempre un piacere parlare e confrontarmi con un giovane (concedimi di darti del tu perché potrei essere tuo padre), a maggior ragione con uno come te che si avvicina ad un mestiere, come il giornalista, esaltante ma difficile.
L: Dottor Borsellino, cosa ricorda di quel pomeriggio del 23 maggio?
Borsellino: Avevo appena terminato una riunione con i miei più stretti collaboratori quando fummo raggiunti dalla notizia di un attentato nei pressi di Capaci, in cui erano rimasti coinvolti Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta. Mi dissero che Giovanni e sua moglie erano stati trasportati all’ospedale civico di Palermo.
L: Lei cosa decise di fare?
Borsellino: Non esitai nemmeno un attimo, mi feci subito accompagnare al nosocomio della mia città; sapevo che in quel momento il mio posto era accanto a Giovanni, l’amico di una vita. Arrivai giusto in tempo per raccogliere il suo ultimo respiro tra le mie braccia (il tono un po’ roco della sua voce sembra incrinarsi).
L: Come si sentì in quel momento?
Borsellino: Mi sembrava che una parte di me se ne fosse andata via insieme a Giovanni, mi sentivo come svuotato, non riuscivo a versare neppure una lacrima, continuavo a muovermi come un automa. Ero in uno stato di trance, ma avvertivo che da quel giorno sarei stato un uomo diverso. Avevo anche un’altra sensazione… forse non mi rimaneva troppo tempo per continuare sulla strada tracciata insieme a Giovanni, forse presto sarebbe toccata anche a me la stessa sorte.
L: E come andò nei giorni seguenti, ha avuto paura?
Borsellino: Dopo lo smarrimento iniziale ho come raccolto tutte le mie energie, mi sono ributtato a capofitto nel lavoro per cercare di scoprire gli esecutori materiali e i mandanti della strage. Riguardo alla paura, certo “è normale che esista la paura, in ogni uomo, l’importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, altrimenti diventa un ostacolo che impedisce di andare avanti.
L: Si può dire che lei e Falcone siate cresciuti insieme. Cosa ci può raccontare di questo rapporto di amicizia?
Borsellino: Quella con Giovanni è stata proprio l’amicizia della vita, tra noi due così diversi eppure così complementari e complici. Abbiamo pochi mesi di differenza, non siamo mai stati in classe insieme ma abbiamo condiviso i giochi, prima da bambini, poi da ragazzi all’oratorio. Abbiamo poi concluso lo stesso percorso universitario, approdando insieme alla magistratura. Giovanni ed io abbiamo inteso il nostro essere magistrati come una vera e propria missione, cioè quella di estirpare dalla società quella mala pianta che è la mafia.
L: Entrambi avete fatto parte del pool antimafia.
Borsellino: Il pool antimafia venne costituito nel 1980; inizialmente ne facevano parte quattro magistrati: io, Falcone, Di Lello, sotto la guida del più anziano Rocco Chinnici.
L: Rocco Chinnici al quale dicono lei fosse molto legato…
Borsellino: (per un momento s’illumina) Sì, vedi io ho perso mio padre a poco più di vent’anni, ho sempre considerato Rocco Chinnici non solo un maestro dal punto di vista professionale, ma anche un sostituto della figura paterna. Caterina, figlia di Rocco Chinnici; anche lei magistrato, è per me come una sorella.
L: Cosa significò quel periodo per Lei?
Borsellino: Fu un periodo davvero cruciale: tutto sembrò funzionare alla perfezione perché si basava su un gioco di squadra all’insegna del rispetto reciproco e di un grande affiatamento. A poco a poco riuscimmo a scuotere le coscienze nei confronti del problema della criminalità mafiosa.
L: Il maxi-processo iniziato nel febbraio del 1986 fu il coronamento di un grande lavoro.
Borsellino: Io e Giovanni lavorammo a fianco con grande abnegazione, condividendo momenti di dura lotta ma anche qualche momento di leggerezza. Il maxi-processo vide sul banco degli imputati ben 475 mafiosi, che in seguito furono condannati.
L: Oggi, 4 luglio1992, Paolo Borsellino come si sente?
Borsellino: In tutta sincerità devo dirti che sono piuttosto provato, esausto, perché da mesi mi sottopongo a ritmi di lavoro sostenutissimi. Inoltre sono lacerato dai sensi di colpa, nei confronti della mia famiglia, soprattutto dei miei figli che vedo raramente perché sono ancora addormentati quando esco di casa di primo mattino e di nuovo immersi nel sonno quando rientro a casa a notte fonda.
L: Un’ultima domanda, dottor Borsellino: mi può dare una definizione di mafia?
Borsellino: La mafia è un’organizzazione criminale che si contraddistingue da ogni altra per la sua caratteristica di territorialità. Essa è suddivisa in famiglie, collegate tra loro per la comune dipendenza da una direzione comune (la Cupola), che tendono ad esercitare sul territorio la stessa sovranità che su esso esercita, legittimamente, lo Stato.
La nostra chiacchierata volge al termine. Mentre lo accompagno alla macchina, lo ringrazio per avermi dedicato un po’ del suo tempo, così prezioso. Nel congedarmi Borsellino mi guarda intensamente dicendomi: “Luca, non aver mai paura di morire. Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola.”
“Il 19 luglio 1992, dopo aver pranzato a Villagrazia di Carini con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia, Paolo Borsellino si recò insieme alla sua scorta in via D'Amelio, dove viveva sua madre. Una Fiat 126 imbottita di tritolo che era parcheggiata sotto l'abitazione della madre detonò al passaggio del giudice, uccidendo oltre a Borsellino anche i cinque agenti di scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina”.
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